AUTOBIOGRAFIA DI GRUPPO

 

Gli occhi di mio padre e di mia madre, umidi di lacrime e di brezza, guardavano attoniti la banchina del porto di Alessandria d’Egitto allontanarsi lentamente dal ponte della nave Esperia. L’Esperia era stipata in prevalenza da italiani, francesi, inglesi costretti dal presidente egiziano Nasser a lasciare quella splendida terra, ricca di storia, di fascino, di profumi particolari, a dimenticare l’unione che si era instaurata tra gli egiziani e gli europei. Eravamo costretti, se non ci fossimo convertiti all’Islam, a lasciare in tutta fretta tutto quello che avevamo costruito; dopo tutto quello che avevamo fatto, eravamo costretti a lasciare la terra d’Egitto come ladri, ci avevano privati di ogni bene: casa, attività, soldi e quel po’ di oro che ogni normale famiglia possiede.
Mio padre e mia madre, legati da un forte amore, ma soprattutto italiani, riempirono un paio di valigie, un baule e portarono in braccio forse i bagagli più cari: mia sorella di quattro anni ed il sottoscritto di anni uno.
Il presidente Nasser accusava senza mezzi termini gli europei, eravamo a cavallo tra gli anni 1955/1957, di espandersi in modo eccessivo nel commercio interno egiziano.
Mio padre lavorava in Borsa ad Alessandria, mia madre era una casalinga senza problemi, i miei zii avevano l’unico laboratorio, con relativa cava di marmo, e conseguentemente eravamo gli unici in Alessandria ad allestire tombe, cappelle e tutto quanto era desiderato dai facoltosi uomini egiziani. Davamo certamente lavoro alle genti locali, ed il rapporto con loro era vero, infatti essi mostravano, nei nostri confronti, profonda amicizia ed uno spontaneo, reciproco, rispetto.
Zio Antonio, il capo della nostra ditta, dovette necessariamente, spinto dalle decisioni governative egiziane, dire agli operai che il tutto doveva, non per sua volontà, avere fine. Ci furono scene di vero panico, gli operai si sentirono traditi, non dalla mia famiglia, alla quale mostrarono profonda gratitudine per il benessere dato loro ed alle relative famiglie, ma pugnalati alla schiena dal loro stesso governo, privati ormai del sostentamento.
I bagagli a mano, che eravamo io e mia sorella, furono rovistati come pacchi prima di salire a bordo; noi venimmo sfasciati (in quel tempo non c’erano certo i pannolini) dai doganieri egiziani, per capire se mia madre avesse messo, fra i nostri piccoli panni, oggetti di valore come soldi ed oro. Nulla venne trovato e mia madre, oltre alle lacrime di dolore per la repentina partenza, oltre alla brezza che spirava in quella giornata grigia, dovette aggiungere lacrime d’umiliazione, mentre pazientemente ci rivestiva in fretta, perché la fila delle madri con i pargoli in braccio era infinita. Mio padre e mia madre, tuttora viventi nonostante l’onta del rimpatrio forzato, portano nei loro cuori il ricordo di una splendida terra. A mano a mano la costa egiziana si faceva più lontana e l’Esperia guadagnava il mare aperto con destinazione Napoli.
Napoli fu solo il porto di arrivo, perché in treno arrivammo subito a Roma.
I miei si appoggiarono necessariamente a casa di uno zio precedentemente partito da quella splendida terra che è l’Egitto; dopo circa un mese trovammo in affitto un appartamento, però mio padre, che da ora in poi chiamerò Saggio, non aveva lavoro e la prima sera, dopo aver stipulato a voce il contratto d’affitto e chiusa la porta di casa, guardò mia madre e abbracciò i suoi due figli. L’arredamento della nuova casa era costituito sempre da due valigie e un baule. Il loro materasso erano due coperte ed io e mia sorella dormivamo fra loro. Il nostro tavolo era il baule, fortunatamente non curvo sulla parte superiore, ma spianato come un rispettabilissimo tavolo di sala da pranzo.
Furono momenti veramente grigi e duri, le privazioni, nei racconti del Saggio, immense. Il freddo era un altro nemico: abituati ad un clima più temperato, dove i fiori sbocciavano a gennaio, mia madre necessariamente ci vestiva in modo totalmente diverso, sfiorando anche il ridicolo per il modo goffo con cui camminavamo per il peso dei nostri piccoli vestiti, che alcune volte non erano della nostra misura.
Iniziammo, con mia sorella, a frequentare l’asilo; nel frattempo il Saggio trovò lavoro, dapprima ripetutamente occasionale, e dopo circa tre anni in pianta stabile all’aeroporto di Ciampino (Fiumicino ancora non esisteva). Cominciai a ragionare con la mia testa, iniziai a capire, con i dovuti limiti, cosa avessero subito ed affrontato i miei.
Solo alle elementari iniziai a mettere più a fuoco lo sforzo dei miei genitori, e ricordo che piansi quando capii che passare dal benessere alla totale mancanza di ogni comodità, per un padre con moglie e figli a carico, non fosse stata una passeggiata.
Iniziai nel 1962, ricordo benissimo quel giorno, a dire al Saggio il primo grazie.
Avevo ormai circa otto anni e nei pomeriggi invernali romani stavo con mia madre in cucina; ormai avevamo le sedie e lo stretto necessario per vivere dignitosamente, e un giorno le chiesi di raccontarmi cosa avrebbe provato se avesse messo in moto la macchina dei ricordi.
Lei desiderava, malgrado tutto, raccontarmi i ricordi che aveva lasciato in Egitto, terra da lei amata in modo smisurato. Il suo pensiero si tramutava in parole dalle quali carpivo i motivi che legano una madre ai propri figli ed al proprio uomo. Mi raccontava che abitavamo in una grande casa nella quale la parola privazione era nefanda; potevamo permetterci quasi tutto, e nutrivamo un doveroso rispetto nei confronti degli inservienti, tutti egiziani, come la cuoca, la stiratrice ed il domestico, un ragazzo praticamente cresciuto con la mia famiglia, di nome Mohamed. E’ vivo il ricordo di mia madre quando ci imbarcammo per l’Italia: Mohamed era lì, sulla banchina del porto di Alessandria, con il vestito riservato alle feste, che piangeva come un bimbo; tentò, con un timido approccio, di alzare un braccio per salutarci, ma niente più.
Tornando col pensiero al loro modo di vivere, dalle parole si manifestavano, a tratti, la rabbia ed il dolore per il trattamento riservato ai cittadini europei che in quel periodo vivevano, oltre che in Egitto, anche in Libia, Etiopia e Tunisia.
Mi spiegò, ed io feci fatica a capirla, che per godere dei nostri beni saremmo dovuti diventare musulmani, dimenticare il nostro Dio ed iniziare ad adorare Allah, onorare le loro feste, deporre la Bibbia in uno scaffale della fornita libreria che avevamo nel salone e tenere a portata di mano il Corano. Quel pomeriggio le dissi basta, le chiesi di interrompere i suoi ricordi, perché vedevo nei suoi occhi la tristezza che combaciava con la mia sensibilità. Le promisi che le avrei chiesto altri ricordi più in là nel tempo.
La sera, quando stavo nel letto (quando avevo ormai 14/15 anni), spesso ripercorrevo mentalmente le loro vicissitudini e non nascondo che cresceva, in qualche parte della mia anima, la rabbia, ed iniziavo ad assaporare la cattiveria, quella cattiveria che ogni popolo può nutrire, più o meno legittimamente, nei confronti di altri uomini. A volte mi chiedevo perché proprio la mia famiglia, ma la risposta non arrivava mai; forse la aspettavo da Dio, non certo da Allah!
Giunto all’età di diciotto anni, mi giunse la cartolina per il militare, e incominciai una nuova era di preoccupazioni, al pensiero di lasciare tutto alle spalle ed andare via.
Questo fatto mi portò ad un’amara tristezza; mi sentivo allo sbaraglio ed avrei potuto commettere qualsiasi errore.
Mi ero fidanzato da pochi mesi con una mia coetanea di nome Sonia, una bella ragazza dagli occhi celesti ed i capelli biondo-cenere, che avevo conosciuto in discoteca .
Non appena le dissi che sarei dovuto partire, si associò a mia madre ed incominciarono le lacrime.
Io, invece, decisi di affrontare la nostra situazione in un altro modo.
La sera stessa incontrai i miei amici, alcuni dei quali si trovavano nelle mie medesime condizioni, e si decise insieme cosa fare.
Andammo in un locale noto per la qualità della birra e, dopo alcuni boccali, iniziammo a prendere le cose con una certa allegria.
Il giorno dopo, a mente più fredda, iniziai a pensare ed elaborai la teoria secondo la quale solo chi non avesse avuto niente di bello da lasciare, avrebbe potuto affrontare tranquillamente la vita militare, con tutti i suoi divieti. Io, al contrario, non volevo abbandonare le persone che amavo.
Arrivò il giorno della partenza. La mia destinazione era Vipiteno, in mezzo alle montagne; per sapere dove si trovasse andai a cercarlo sulla carta geografica: era un paesino dopo Bolzano, prima del confine.
Partii a malincuore; sul treno trovai altri ragazzi e, dopo un giorno di viaggio, arrivammo alla stazione, dove ci caricarono su alcuni camion per portarci in caserma.
Lì ebbi uno choc: la caserma era tutta dipinta di nero; gli A.U.C.S. ci fecero entrare nella camerata e ci raccomandarono di non andare allo spaccio, se non accompagnati da uno di loro, perché sarebbero potuti nascere problemi coi "nonni". Infatti il giorno dopo iniziarono i primi problemi di nonnismo.
Un nonno mi chiamò e mi disse che io ero suo nipote ed avrei dovuto fargli il cubo ogni mattina.
Quando gli risposi di farselo lui, mi afferrò per la camicia; io presi una scopa e gli ruppi il setto nasale, e ottenni la mia prima punizione: dieci giorni di C.P.R.
Durante quel periodo, il tempo sembrava non passare mai, ed io iniziai a ripensare alla mia vita, a ripercorrerla giorno dopo giorno.
Mi resi conto di tutti gli errori che avevo commesso, ed incominciai a capire che avrei dovuto cambiare il mio modo di vivere. Quello, malgrado tutto, poteva essere l’inizio di un nuovo capitolo della mia vita, che mi avrebbe permesso di cambiare in meglio.
Poi anche quella dura esperienza finì ed affrontai la vita militare in modo più positivo.
Approfittai dei momenti di libertà e della libera uscita per cercare di fare nuove conoscenze. Un giorno, erano le 17:30, ero in fila insieme agli altri militari, pronto per la libera uscita. Ero contento di poter uscire anche solo per poche ore dalla monotonia della caserma. Ero un ragazzo normale, alto 1:80 cm, con capelli neri ed occhi azzurri, un fisico asciutto ed un paio di orecchie a sventola che mi avevano tormentato sin dall’infanzia.
Buono d’animo ma con la facilità a lasciarmi trasportare, sempre pronto alla battuta, ero una persona gradevole nell’insieme, ma sempre tormentato dalla voglia di riuscire in qualche cosa, che nemmeno io sapevo. Avevo voglia di sfondare, di lasciare il segno, ma il destino aveva in serbo cose amare per me. Passeggiavo per il centro di Bolzano quando notai un negozio di dolciumi, e mi venne voglia di liquirizia, quindi entrai nel negozio e, appena varcato l’ingresso, il cuore prese a martellarmi nel petto, il respiro mi si mozzò in gola. Avevo visto la più bella creatura al mondo; stava dietro la cassa con i suoi grandi occhi marroni come quelli di un cerbiatto, aveva dei pantaloni beige chiaro con una camicetta a quadretti sottili bianchi e rossi, lunghi capelli castani, un fisico snello, il viso era rotondo con il mento leggermente a punta, una bocca carnosa e sensuale, lunghe ciglia nere; pensai ad alta voce "un angelo", e lei, con un sorriso che mi fece vacillare, disse: "No, mi chiamo Deborah, posso aiutarti?"

"Sì, vorrei un po’ di liquirizia e mi piacerebbe portarti a mangiare una pizza"

Rise , con una risata che ancora oggi mi fa rimescolare il sangue.

"La liquirizia è in quello scaffale alla tua sinistra, per la pizza vedremo."

Io incassai quello che credevo fosse un due di picche, presi la liquirizia, pagai ed uscii. Da quel momento capii che lei era la donna della mia vita, fu il classico colpo di fulmine, ma purtroppo la ritenevo irraggiungibile; ero e sono tuttora impacciato quando una donna mi piace, e non sapevo proprio come fare per agganciarla senza rendermi ridicolo. Così lasciai trascorrere le settimane, senza dimenticare di passare davanti al negozio ogni volta che uscivo, quando una sera, dopo aver fatto il solito giro davanti al negozio, la sentii dire: "Allora, questa pizza?" Di nuovo la stessa sensazione di tremore alle gambe; e mi sembrava che il cuore mi scoppiasse nel petto; mi girai e, cercando di non sembrare sciocco o peggio ridicolo, le proposi di andarci quella sera stessa; ci demmo appuntamento per le 20:30.
Fu una serata stupenda, quando ci incontrammo era ancora più bella di come l’avevo vista la prima volta.
Camminammo a lungo, era una bella serata di fine maggio, e attraversando i vari chioschi che vendevano un’infinità di cianfrusaglie mi sentivo l’uomo più felice della terra, vedevo gli sguardi delle persone e gioivo dell’aperta ammirazione che Deborah suscitava negli altri.
Passammo la sera a raccontarci le nostre vite, ed io non mi stancavo mai di ascoltare la sua voce, mi sembrava di sentire cantare gli angeli.
Passarono così mesi straordinari, durante i quali mi sentivo totalmente appagato, persino la sensazione di inutilità e di anonimia che mi aveva accompagnato da sempre sembrava essermi scivolata di dosso come pioggia.
La domenica, o quando avevo una licenza, scappavamo per delle giornate intere, andando a scoprire insieme tutte le bellezze del Trentino. Eravamo persi a tal punto che per mesi mi dimenticai di tornare a casa.
Il rapporto con Deborah mi aiutò immensamente in quanto consideravo l’anno militare un periodo perso, privo di alcun significato dal punto di vista formativo. Avevo vissuto mesi spensierati insieme a lei ma, purtroppo, mi accingevo a capire che le cose positive non hanno lunga vita. Iniziai a fare paragoni con Sonia e, se anche le affinità tra loro non mancavano, inesorabilmente mi ponevo il problema del futuro da trascorrere nella solitudine, perché anche con Deborah il tutto finì in una bolla di sapone. E pensare che avevo creduto veramente nell’espressione più alta del sentimento ma, a quell’età, si può dimenticare tutto con la massima fretta, senza portare danni. Si riaprì perciò il rapporto con Sonia, con la quale, dopo aver discusso a lungo della "parentesi sentimentale" che avevo vissuto in quell’anno, decidemmo di andare a vivere insieme.
Posta la parola fine alla parentesi militare, subentrò un periodo transitorio di difficile interpretazione. Mi sentivo, con precisione svizzera, talvolta pronto ad entrare nel mondo lavorativo, talvolta invece mi sopraffaceva la mia negatività e rimandavo ogni impegno, arrivando perfino a considerare il lavoro un traguardo irraggiungibile. In un simile frangente, posso immaginare che lo sia stato anche per altri, il punto di riferimento sono gli amici. Il rapporto con i miei genitori si complicava giorno dopo giorno in quanto, oltre alla strafottenza che acquisivo forzatamente dal comportamento del gruppo, iniziavo a chiedere soldi per non essere inferiore agli altri. La situazione familiare, ed in particolare quella economica, era di livello normalissimo, anzi, essendo mio padre l’unica fonte di reddito, si arrivava a fine mese con qualche affanno, di conseguenza le mie richieste portarono inevitabilmente a rivedere i conti mensili da parte del Saggio. Lui mi assicurava che si sarebbe adoperato per me, che avrebbe aspettato il momento giusto; in effetti in quel periodo la situazione nel mondo del lavoro era veramente difficile, la raccomandazione era necessaria a tutti i livelli. Il sistema era davvero in difficoltà, la crisi economica si faceva sentire soprattutto sulle fasce medio-basse, l’inflazione galoppava all’unisono con il tasso di disoccupazione. Dopo aver descritto sinteticamente il quadro economico-sociale di quegli anni, vorrei soffermarmi sul rapporto gravoso, in termini economici, che una famiglia normale ha con i propri figli se questi girano a vuoto per la città, senza cercare di dare una mano al proprio nucleo famigliare.
Comunque i giorni passavano privi di contenuti rilevanti per la mia famiglia, ma pieni di felice ozio per il sottoscritto. Il felice ozio era per noi tutti, parlo chiaramente dei miei amici, motivo di soddisfazione; eravamo soddisfatti del nulla, spensierati ma privi di alcun interesse, e vuoti dal punto di vista morale.
Subentrò anche la droga, dapprima con la preparazione di artistici spinelli, seguiti dall’assunzione di cocaina; in particolare era freneticamente atteso il sabato sera.
Considero quel lasso di tempo il più pericoloso dal punto di vista formativo in quanto la fantasia, la rabbia, la creatività l’inasprimento della vita erano reali ami buttati in mare ed il pesce-droga, il pesce-crimine, continuavano a girarmi intorno. Ho sempre sperato che la mia esca non piacesse, ma inevitabilmente qualcuno dei miei amici, uno alla volta, veniva guadinato. Che cosa facevamo per evitare tutto questo? Intanto restavamo a vivere con i nostri genitori, continuando a chiedere i soldi, cercavamo di ritardare il passaggio all’età adulta, forse per paura di affrontare l’incognito.
La sera, o la mattina, al rientro a casa, dopo aver passato buona parte della notte fuori, una volta appoggiata la testa sul cuscino, consideravo il mio comportamento, come quello dei miei amici, un lento suicidio generazionale; mi sentivo quasi irrimediabilmente ai margini del mondo attivo, tagliato fuori da un sistema che mutava velocemente, e sempre più privo di risorse.
Un’altra tappa fondamentale fu il 1979, quando il Saggio, dopo essersi attivato in modo sfrenato e favorito dall’ormai consolidata posizione ottenuta nell’ambito lavorativo (era funzionario all’aeroporto di Fiumicino e responsabile delle partenze dei VIP), iniziò un capillare inseguimento ad un presidente di una nota Banca; di conseguenza era appostato come un falco per compiere la sua missione. Era frequente il passaggio, per ovvi motivi di lavoro, di questo illustre banchiere, con il quale mio padre si intratteneva nella saletta di moquette rossa in attesa del volo, ed era quello il momento di colpire.
Il Saggio colpì e, dopo avermi fatto eseguire le necessarie visite mediche e consegnato i documenti per potermi fare assumere, fui chiamato ed assunto a tempo indeterminato.
Mio padre si era attivato in modo fondamentale per il raggiungimento di un obiettivo primario; l’aver "sistemato" il proprio figlio in un contesto lavorativo di rilevanza sociale, lo riempì di enorme soddisfazione.
D’altronde, anche per me tale assunzione era motivo di orgoglio.
L’agognato posto in banca era mio: dissi di nuovo grazie al Saggio.
Nel mio inconscio, però, covava sempre la voglia di trasgredire; le amicizie extra-lavorative alimentavano in me la voglia di farlo.
Lavorando quotidianamente a contatto con i soldi, obbligatoriamente si è costretti a mantenere la concentrazione per tutta la durata dell’orario lavorativo. Non nascondo, e sarei un vigliacco a non dirlo, che, nei momenti di difficoltà familiari, ho più volte pensato di poter attingere a quel cassetto metallico, rinunciandovi ogni volta.
Nel frattempo andai a vivere con Sonia, ma gli amici avevano un ruolo importante nella mia vita, e influenzavano i miei comportamenti.
Infatti il fare tardi la sera con loro, inevitabilmente aumentava il mio stress ed il giorno seguente, dietro la cassa, sentivo di odiare i clienti della banca.
Questo stress durò per un lasso di tempo durante il quale iniziai a meditare di arrivare ad una svolta. Non potevo far conciliare due modi di vivere totalmente diversi.
Ciò collimava con le prime incrinature familiari, infatti il rapporto con la mia compagna si complicava giorno dopo giorno; la mia decisione di lasciare la banca era motivo di continue discussioni.
Ricordo che in quel periodo c’era il blocco delle assunzioni, e a chi avesse deciso di presentare le dimissioni l’Istituto avrebbe dato il soprannumero di personale, favorendo questo con una buonuscita oltre la liquidazione.
Avevo infatti in mente di aprire un’attività commerciale di vendita-noleggio video, cd e strumenti musicali.
Inevitabilmente, il peso maggiore che dovevo sopportare era parlare con mio padre, che tanto si era battuto per me. Avevo paura di deluderlo, non l’avrebbe meritato, ma, pur con qualche riserva, analizzati i pro e i contro della mia decisione, mise in primo piano la soddisfazione professionale che ogni uomo deve avere.
La sua disquisizione fu molto semplice, ma di un’efficacia incredibile, ed alla fine approvò la mia decisione; dissi ancora una volta grazie al Saggio per il suo aiuto morale e non solo.
Nel 1986, quindi, aprii un negozio di video.
Portando avanti questa attività, conobbi un’altra donna, ed incominciammo a frequentarci; dopo qualche mese la mia famiglia incominciò a capire ciò che stava accadendo. Cominciarono le liti in famiglia; io negavo sempre, per non perdere i miei affetti.
Purtroppo non potevo negare l’evidenza dei fatti , perché la mia compagna conosceva tutte le mie abitudini, che negli ultimi tempi erano cambiate.
Quando il mese di luglio andavamo in ferie, erano continue discussioni, perché io pensavo sempre di tornare a casa, dove avevo lasciata la mia nuova donna ma Sonia, la mia compagna, mi tormentava sempre più, a causa della sua gelosia.
Ma il pensiero era più forte, le telefonate, da parte di Giulia (il mio nuovo amore) sempre più insistenti; io cercavo in tutti i modi di ritornare, e spesso ci riuscivo.
Questa storia andò avanti per quasi tre anni; alla fine si seppe tutto e non potei più negare l’evidenza.
Chiarii ogni cosa con la mia famiglia, ma non me la sentii di buttare via gli anni di convivenza vissuti accanto ad una persona che ho amato ed amo ancora. I problemi più grandi di questa relazione nascevano di solito durante le feste natalizie, perché non sapevo come dividermi.
In ogni caso, quella relazione sentimentale non fece che crearmi altri problemi, in quanto io, per mantenere le mie due " famiglie ", iniziai ad indebitarmi e ad entrare, di conseguenza, in un giro d’affari illegali.
Con i miei amici, cominciai a produrre cassette-pirata e ad emettere assegni falsi.
La mia vita stava cominciando a prendere una brutta piega, ma io non me ne rendevo conto, preso com’ero in un ingranaggio più grande di me.
Mano a mano che questa vita proseguiva, iniziavo a preoccuparmi un po’, infatti incominciarono i problemi giudiziari: mi arrivò l’invito a presentarmi in Questura per essere interrogato .
A questo punto avrei voluto cercare di tirarmi fuori, ma non ci riuscii , perché ormai l’ingranaggio era partito e non ero più in grado di fermarlo, perché non ero da solo, e per uscirne avrei dovuto darne conto ai miei amici.
I problemi aumentavano giorno dopo giorno, e mi sentivo sempre più perdente, e sempre più indebitato.
Incominciai a cercare il modo di ridurre le spese, ma era tutto inutile, perché purtroppo le famiglie erano due.
Cominciai a pensare di troncare la mia relazione, ma era più forte di me. Credevo che, con tutti gli imbrogli che avevo commesso, sarei finito in carcere; solo a pensarlo mi sentivo male, perché avrei fatto un torto alla mia famiglia.
Ma purtroppo i tempi stringevano, mi sentivo perseguitato, spinto, tentavo in tutti i modi di trovare una via d’uscita a questa vita tanto ingarbugliata.
Mi misi a pensare; il mio pensiero mi portò indietro di qualche anno, quando vivevo la mia vita tranquilla con i miei, senza nessun problema.
Decisi così di troncare questa mia ennesima storia d’amore, perché era quella la cosa giusta da fare, solo così avrei potuto dimezzare tante spese e cercare di recuperare una certa " normalità ".
Tornai di nuovo con Sonia che, come sempre, mi aveva perdonato, ma purtroppo dopo qualche mese venni arrestato a causa dei reati che avevo commesso.

La mattina del 15 aprile 1990 si presentò al negozio un distinto signore, ma ormai temevo, e soprattutto diffidavo di qualsiasi sconosciuto; intravidi dalla vetrina laterale altre tre persone in borghese che discutevano in modo garbato ma palesemente finto.
Capii. Con modo gentile ma perentorio nel contempo, mi consegnarono tre fogli bianchi dattiloscritti con stampati il capo d’imputazione ed il relativo atto di custodia cautelare.
Fui portato presso la caserma della Guardia di Finanza, ove rimasi per circa due ore.
Mi fecero sedere davanti ad una scrivania, al cospetto di funzionari delle Fiamme Gialle, mi fecero più volte le stesse domande; cominciai a carpire il complicato ingranaggio che la giustizia applica a chi viene sottoposto all’arresto.
La prima grande umiliazione fu quando mi fecero uscire dalla stanza dell’interrogatorio; essendo la caserma priva di una camera di sicurezza, mi misero le manette per la prima volta.
L’umiliazione non fu questa, ma l’essere agganciato per il polso sinistro ad un termosifone, peraltro spento, collocato alla fine di un lungo corridoio.
Avevo la mano destra libera e ciò mi permetteva di poter accendere, con qualche difficoltà, le sigarette che fumavo nervosamente.
Pochi istanti prima della traduzione in carcere mi fecero fare una telefonata. Avvertii dell’accaduto i miei familiari e li informai che mi stavano portando al carcere di Regina Coeli.
Quando si spalancò il portone elettrico dell’istituto, venni assalito da sensazioni di impotenza, rabbia, ma soprattutto di totale abbandono.
La prima tappa fu la matricola, con relative impronte digitali, fotografie e deprimente controllo fisico.
Una volta assegnato al braccio, iniziai a mettere a fuoco alcuni dettagli in un contesto ancora totalmente oscuro.
Cominciato il percorso di rito con la matricola, venni schedato come un camorrista, mentre non mi rendevo neanche conto di cosa mi stesse capitando.
Arrivai in una cella alle ore 13 e trovai un altro detenuto, il quale mi chiese perché fossi dentro; gli spiegai a brandelli la mia storia, ma ero troppo frastornato.
Cominciai a rendermi conto solo l’indomani di cosa mi fosse capitato; la mia mente tornava indietro nel tempo, pensavo a tutto il mio passato e mi tormentavo, ero disperato ma non potevo fare niente, dovevo solo attenermi alle regole del carcere.
La prima volta che entri in carcere è come essere tolto dalla vita, ti senti una vittima e vivi esperienze nuove.
I primi giorni di detenzione sono i più brutti, perché devi fare amicizia e non è facile.
La detenzione comincia a pesare perché senti la mancanza dei tuoi, vivi in un mondo a parte e non sai cosa stia succedendo fuori.
Tenere i contatti con i familiari non è semplice; se sei dentro per la prima volta non sai niente, sei solo un numero che deve stare alle regole, che a volte non conosci nemmeno.
Per mandare la posta, la sera la metti fuori dalla cella e la notte passano le guardie e la prendono.
Quando ricevi la risposta, gli agenti ti aprono la busta e te la consegnano. Io cerco di farmi coraggio e, quando mi arriva qualche lettera, mi sento come un ragazzino quando gli compri i giochi; è triste non sapere le notizie che vengono da fuori.
Nel carcere l’attesa di una lettera dà, senza ombra di dubbio, un senso alla giornata, è un momento nel quale vieni avvolto da un’atmosfera surreale, vorresti che le parole non finissero mai; poi, dopo averla letta e riletta, ti senti catapultato con violenza sulla branda e ti accorgi, con enorme sconforto, di essere circondato dalle solite quattro mura inesorabilmente vicine tra loro.
Essere in carcere per la prima volta non è così semplice, ma se sei una persona abbastanza corretta e sincera con i tuoi compagni, ti puoi trovare bene.
Qui il tempo non passa mai, e bisogna cercare il modo di andare avanti.
Il momento più brutto è di mattina, perché non sai come passare il tempo, è troppo brutto.
Bisogna imparare a sistemare il letto e fare cose che fuori non facevi.
Da un mondo ti portano in un altro, dove le decisioni non sono facili.
In carcere ti senti inutile, e se non ti aiutano i tuoi non hai speranza.
La vita quotidiana del carcere ti porta a riallacciare i rapporti con la famiglia.
La famiglia è il cardine che ti lega al mondo esterno, è il cordone ombelicale che ti tiene a galla ed a cui ritorni ad aggrapparti.
La famiglia è fonte di sicurezza, sicurezza che per i nuovi drammatici eventi ti viene a mancare.
L’amore della propria donna, sicuramente, è l’altra scialuppa di salvataggio, alla quale salti sopra come un naufrago disperato.
L’inesperienza, vissuta nel contesto carcerario, ti porta a chiedere consigli ai tuoi compagni di cella, relativi all’eventuale permanenza nella nuova "abitazione".
Di conseguenza ascolti punti di vista opposti, per cui dei giorni ti senti irrefrenabilmente ottimista, ed altri senti il peso della condanna che il più pessimista dei tuoi compagni ti ha inflitto in modo virtuale.
Quando sei in cella riconosci i passi degli agenti che si avvicinano per consegnarti la posta, per fare la conta, quando passano…e vanno oltre.
L’unica cosa che spero di dimenticare, una volta fuori, è il tintinnio delle enormi chiavi che le guardie carcerarie portano al loro cinturone.
E’ un rumore che ti logora, che ti penetra nel cervello, è un rumore che odi dal profondo.
La ripetitività degli eventi giornalieri ti fa sentire oltremodo più pesante il tutto.
In particolare la notte, prima di addormentarti, ti senti stringere il cuore, radendo il dolore fisico reale, da una pinza stretta da forti mani, e nemmeno quando il sonno ormai ti avvolge senti mollare la presa.
Comunque ci sono anche momenti meno gravosi, come il frequentare la scuola o i vari corsi organizzati dall’amministrazione, momenti nei quali riprendi il contatto con la vita esterna…

Mentre iniziavo a fare amicizie in carcere, fui mandato agli arresti domiciliari. Mi presero dal carcere e mi portarono a casa; non riuscivo nemmeno ad immaginare cosa significasse quel cambiamento, so solo che in un attimo mi ritrovai a casa dopo tre mesi e per me fu una grande gioia, anche se dentro di me avevo il rimpianto per tutte le storie sentite in quei mesi e lasciate là dentro.
Stando agli arresti domiciliari dovevo comunque rispettare tante regole: non potevo uscire dalla mia proprietà, non potevo avere contatti telefonici, non potevo incontrare i miei amici e i miei parenti, per potermi fare visita, dovevano essere autorizzati dal giudice. I controlli erano continui, i carabinieri potevano venire in ogni momento, anche di notte, e dovevo farmi sempre trovare, in qualsiasi momento della giornata. Se non avessi rispettato le regole,sarei rientrato subito in carcere.
Anche questa vita non era tanto semplice, ma io rispettavo tutti gli obblighi perché non volevo tornare tra "quelle mura".
Ero anche preoccupato per il processo che avrei dovuto affrontare, ma il mio avvocato mi assicurava che non sarei più tornato in "quel luogo".
Ripresi con difficoltà, ma anche con una certa fiducia, la mia vita quotidiana, riallacciando la mia tormentata relazione con Sonia, che mi era sempre vicina e mi aiutava a superare tutto, anche la paura del processo.
Finalmente, dopo sette mesi di arresto, venni giudicato e condannato a dodici mesi con la condizionale.
Dopo quei lunghi sette mesi di detenzione passati tra custodia cautelare ed arresti in casa, ero finalmente uscito da quella terribile avventura.
Incominciai a pensare ad una prospettiva di un nuovo inserimento in quella società dalla quale ero stato lontano per tanti mesi, ma non era tanto facile reinserirsi, perché tutti diffidavano di me, a causa di ciò che mi era capitato.
Io avevo la volontà di ricominciare tutto daccapo, ma trovavo molti ostacoli in tutto quanto volevo fare; più nessuno aveva fiducia in me, ed io continuavo ad essere umiliato dalla società, e purtroppo non riuscivo ad iniziare una nuova vita.
Progettavo tante cose, ma quando andavo dalle persone che avrebbero potuto aiutarmi, vedevo che venivo respinto e ci restavo male, ma questa era la cruda verità.
Era una sensazione bruttissima, perché io avevo sempre aiutato tutti sia moralmente che economicamente, e vedermi respingere era davvero umiliante.
Spesso tornavo a casa piangendo come un ragazzino, e lì trovavo Sonia che cercava in tutti i modi di tirarmi su, ma i suoi tentativi erano inutili, perché era chiaro che ormai ero un emarginato.
Decidemmo perciò di trasferirci al Nord, dove trovammo ospitalità presso alcuni parenti di Sonia.
La mia compagna si adoperò freneticamente alla ricerca di un lavoro, che arrivò grazie all’aiuto di due nostre cugine, che la raccomandarono presso una famiglia facoltosa, che la assunse come domestica.
Il rapporto instaurato tra Sonia e la famiglia dove lavorava si rivelò proficuo e portò ad una reciproca fiducia, che permise alla mia donna di sottoporre loro il mio problema personale.
Questi coniugi, non avendo figli, accettarono con grande entusiasmo Sonia in casa, trattandola come una figlia.
La coppia iniziò così a cercare un inserimento lavorativo anche per me.
Venni così assunto presso una cooperativa dedita al sociale, dove svolgevo le più svariate mansioni.
Cominciammo così una nuova vita, ricca di soddisfazioni morali, anche se piuttosto faticosa e piena di sacrifici.
Certo lo stipendio non era il massimo, ma, con l’aiuto di Sonia, riuscimmo a portare avanti il nostro rapporto; trovammo in affitto una casa e vivevamo in modo decoroso, ma soprattutto tutto era svolto alla luce del sole.
Il rapporto tra noi era nitido, la sera ci confrontavamo, discutevamo del mio e del suo lavoro, il dialogo era alla base di tutto.
Aderimmo anche ad un’associazione di volontariato che aiutava i detenuti ma, essendo stato anch’io in carcere, potevo aiutarli solo dall’esterno, affiancandoli nel riprendere il contatto con la vita "normale".
A volte, quando tornavo a casa prima di Sonia, ripercorrevo le pagine negative della mia vita, ma a tutto riuscivo, con l’aiuto di Dio, a dare una risposta.
Una sera in particolare, dopo molto tempo, ricordai un sogno che avevo fatto in carcere.
Quella notte sognai che camminavo sulla sabbia accompagnato dal Signore, e su uno schermo della notte erano proiettati tutti i giorni della mia vita; guardai indietro e vidi che ad ogni giorno proiettato apparivano orme sulla sabbia: una mia e una del Signore. Così andai avanti finché i miei giorni si esaurirono. Allora mi fermai guardando indietro,notando che in certi posti c’era solo un’orma. Questi coincidevano con i giorni più difficili della mia vita, di maggiore angoscia e dolore. Domandai allora: "Signore, perché mi hai lasciato solo proprio nei momenti peggiori?" Il Signore mi rispose: "Figlio mio, ti dissi che sarei stato con te durante tutta la camminata e che non ti avrei lasciato solo neppure un attimo…e non ti ho lasciato. I giorni in cui tu hai visto solo un’orma sulla sabbia, sono stati i giorni in cui ti ho portato in braccio."

AUTORI:

Coordinatrice didattica:Giovanna Ferloni

Si ringrazia per la collaborazione al computer: Leonardo Benjumea

Varese, 16 dicembre 2000

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